Il DLvo 152/06, come modificato dal D.L.vo 205/2010, riporta (per ragioni assolutamente incomprensibili) due definizioni praticamente identiche di rifiuto pericoloso: ex articolo 184 comma 4 “sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all’Allegato I”, mentre ex art. 183, è pericoloso “ il rifiuto che presenta una o più caratteristiche di cui all’allegato I della parte quarta del presente decreto”, ovvero l’allegato che enuncia le caratteristiche di pericolo[1].
Le modifiche introdotte al TUA, per effetto del citato c.d. quarto correttivo, hanno quindi variato, in linea con quanto disposto dalla nuova Direttiva comunitaria in materia di rifiuti (Direttiva 2008/98/Ce), sia la nozione di rifiuto pericoloso sia i riferimenti tecnici fino ad allora utilizzati per l’attribuzione delle caratteristiche di pericolo, ovvero per la classificazione di un rifiuto come pericoloso.
L’attribuzione delle caratteristiche di pericolo è poi direttamente collegata a quanto disposto nella citata Decisione 2000/532/Ce e ssm, istitutiva dell’Elenco europeo dei rifiuti, e recepita nell’Allegato D alla Parte IV del TUA.
Sulla base di tale catalogo possiamo affermare che esistono due tipi di rifiuti pericolosi:
1) pericolosi tout court: per il punto 4 della Introduzione all’Allegato della Decisione, i rifiuti contrassegnati nell’elenco con un asterisco «*» sono rifiuti pericolosi ai sensi della Direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi e ad essi si applicano le disposizioni della medesima Direttiva[2], a condizione che non trovi applicazione l’art. 1, par. 5;
2) pericolosi sub condicione: per il punto 5, invece, se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni, tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all’all. III della Dir. 91/689/CEE del Consiglio.
Ed è solo in tale seconda circostanza che il produttore è tenuto – per attribuire una corretta codificazione – all’esecuzione di analisi da parte di un laboratorio certificato per valutare la pericolosità di un rifiuto[3].
L’Allegato D, punto 3.4 al D.L.vo 152/06 ora prevede infatti che i rifiuti contrassegnati nell’elenco come pericolosi siano da ritenersi tali “… ai sensi della Direttiva 2008/98/Ce e ad essi si applicano le disposizioni della medesima direttiva (a meno che non siano prodotti da nuclei domestici)”.
L’art. 2 prosegue: “ove pertinente si applicano i valori limite di cui agli Allegati II e III della Direttiva 1999/45/CE (che ha sostituito la Direttiva 88/379/Ce) relativa alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura dei preparati pericolosi e successive modifiche”.
Con specifico riferimento ai rifiuti contraddistinti da voce a specchio, è opportuno rammentare che trattasi di un rifiuto che (nella stragrande maggioranza dei casi) può essere considerato pericoloso o non pericoloso proprio in base ai valori di concentrazione delle sostanze pericolose eventualmente contenute in esso.
Un rifiuto individuato da una “voce a specchio” è identificato come pericoloso, dunque, solo se le sostanze pericolose raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio, percentuale rispetto al peso) tali da conferire al rifiuto una o più delle proprietà di cui all’Allegato I del D.L.vo 152/06.
Sul punto si segnala una specifica presa di posizione di un autorevole autore il quale ha avuto modo di precisare recentemente[4] che “il codice speculare relativo al rifiuto pericoloso competerà al medesimo solo quando le sostanze pericolose risultano realmente presenti in esso, mentre nel caso queste non risultino presenti, al rifiuto competerà il corrispondente codice speculare non pericoloso” (affermando dunque una sorta di presunzione di non pericolosità). Lo stesso autore, peraltro, con un improvviso e radicale revirement, ancor più recentemente ha cambiato completamente idea affermando che in tali casi “presuntivamente il rifiuto è considerato non pericoloso”[5]
A prescindere dal fatto che in linea di massima sono più favorevole a questo secondo orientamento sulla base del principio di precauzione, ritengo che la domanda più importante da porsi in termini pratico/operativi sia comunque un’altra: quali sono le sostanze da ricercare? Evidentemente quelle che si presuppone siano presenti nel rifiuto in base al processo produttivo dal quale scaturisce.
Più precisamente, la classificazione di un rifiuto identificato da una “voce a specchio” e la conseguente attribuzione del codice devono essere effettuate dal produttore/detentore che si assume la responsabilità di tale classificazione/catalogazione e per determinare quando un rifiuto è classificato come non pericoloso o pericoloso, si deve concretamente procedere ad analizzare chimicamente il materiale.
Come noto, il corretto percorso di individuazione delle caratteristiche di pericolo presuppone in prima istanza sempre il riferimento al processo produttivo e/o all’attività economica che ha generato il rifiuto. Devono essere individuate le sostanze pericolose potenzialmente presenti, tenendo conto che se, ad esempio, in quel processo non si utilizzano solventi o prodotti che li contengono non sarà ovviamente necessario ricercarne analiticamente la presenza[6]; una volta individuata la sostanza pericolosa da ricercare, sarà poi necessario verificarne la concentrazione in relazione ai valori di soglia indicati dalla norma.
Sintetizzando sul punto: in caso di voci a specchio per verificare la pericolosità di un rifiuto non è ovviamente necessario verificare analiticamente la presenza di tutte le migliaia di sostanze pericolose esistenti e determinarne la concentrazione, ma deve essere indagata la presenza delle sostanze che con più elevato livello di probabilità potrebbero essere presenti nel rifiuto[7],[8] e con riferimento a quelle verificare il superamento dei limiti di concentrazione, ove previsti.
Le analisi sui campioni devono essere effettuate secondo metodiche standardizzate o riconosciute valide e a livello nazionale, comunitario o internazionale; devono, inoltre, essere effettuate almeno ad ogni inizio attività e almeno ogni anno, e comunque ogni qualvolta intervengano modifiche sostanziali al processo di produzione[9].
Vi è da sottolineare, a sostegno di quanto sopra, che la dottrina più autorevole[10], in ordine alla esaustività delle analisi, conferma la mancanza di riferimenti univoci a carattere generale, rilevando la necessità di formulare valutazioni in ordine ai casi specifici. Infatti, le sostanze pericolose riconosciute come tali nelle direttive comunitarie sono circa 8.000 mentre l’industria stima che ne circolino in Europa circa 20.000, in qualche modo classificabili come pericolose secondo i criteri comunitari. A motivo di ciò il criterio dell’esaustività sconosciuto dalle norme comunitarie e nazionali risulta tecnicamente insostenibile, “… ritenendo d’altra parte impensabile dover ricercare oltre 20.000 sostanze al fine di classificare un rifiuto andranno ricercate quelle che ragionevolmente possono essere contenute in funzione del ciclo produttivo e/o di consumo che ha generato il rifiuto” [11][12].
Concludendo sul punto: una volta individuata la coppia di codici a specchio (uno pericoloso e uno non pericoloso), sussiste il problema di comprendere come proseguire nell’indagine. Si ripete: le analisi per essere ritenute sufficientemente esaustive devono essere effettuate con lo stesso criterio utilizzato per la classificazione, ovvero quello che prende in considerazione il ciclo produttivo, e quindi si deve procedere con la ricerca della presenza (e delle relative percentuali) delle sostanze pericolose potenzialmente presenti in quel particolare ciclo produttivo e non sicuramente analizzando tutte le migliaia di sostanze pericolose esistenti.
Del resto è ancora lo stesso autore precedentemente citato che rammenta come “la conoscenza del processo o delle attività da cui deriva il rifiuto può agevolare la caratterizzazione chimico-biologica del rifiuto”[13].
Laddove, quindi, il produttore proponga la ricerca di determinate sostanze sulla base del processo produttivo che ha generato quel particolare rifiuto, ricade su chi eventualmente contesta questa scelta l’onere probatorio di dimostrare che, in realtà, era ipotizzabile la presenza di altre sostanze, nonché i motivi che fondano questa presa di posizione, purchè tale richiesta sia motivata e “sostenibile”. In proposito si fa notare che anche secondo la recente sentenza Tar Lombardia (sede di Brescia), sez. I, n. 207 del 1 marzo 2013 una prescrizione relativa alla gestione rifiuti non può assumere caratteristiche di sproporzionalità, di non inerenza ed “eccessivamente comprimente l’iniziativa aziendale anche sotto il profilo economico”.
Fonte: TuttoAmbiente (Autore: Stefano Maglia)
[1] Dal 25 dicembre 2010, l’Allegato I contiene tutte le 15 caratteristiche di pericolo per la classificazione dei rifiuti, ovvero, in sintesi: H1 Esplosivo, H2 Comburente, H3-A Facilmente infiammabile, H3-B Infiammabile, H4 Irritante, H5 Nocivo, H6 Tossico, H7 Cancerogeno, H8 Corrosivo, H9 Infettivo, H10 Tossico, H11 Mutageno, H12 Rifiuti che a contatto con acqua aria o un acido sprigionano gas tossici o molto tossici, H13 Sensibilizzanti, H14 Ecotossico, H15 Rifiuti suscettibili, dopo l’eliminazione, di dare origine in qualche modo ad un’altra sostanza ad esempio a un prodotto di liscivazione avente una delle caratteristiche sopra elencate.
[2] Si deve segnalare che la nuova formulazione dell’art. 184 comma 4 sul punto è invece più generica ed infatti afferma: “Sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all’Allegato I della parte quarta…” e ciò consente di affermare che anche i rifiuti domestici potrebbero rientrare tra i rifiuti pericolosi. Il che, è tecnicamente e materialmente corretto, poiché rispondente, in molti casi, alla realtà, ma comporta in teoria, diverse complicazioni nel momento in cui ad occuparsi di questi rifiuti (pericolosi) deve essere il gestore dei RU nell’ambito dell’ordinaria raccolta.
[3] A. POSTIGLIONE – S. MAGLIA, Diritto e gestione dell’ambiente, op. cit., p. 184
[4] M. SANNA, “I codici a specchio”, in Industrieambiente.it, 2013
[5] M. SANNA, “Classificazione dei rifiuti e Codici CER”, in Industrieambiente.it, 2014
[6] In tal senso: P. PIPERE, in Diritto Ambientale, IPSOA 2009, sopra citato.
[7] In tal senso si veda: la Guida all’applicazione dei criteri di classificazione del CLP nonché la Guida introduttiva al regolamento CLP, entrambe dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche, edizione 2009, edite sul sito dell’ISS.
[8] Sul punto si segnala anche la pronuncia di Corte di Giustizia europea del 22 giugno 2000 (causa C-318/98) in ordine al percorso della corretta identificazione di un rifiuto come pericoloso o meno.
[9] Il campione deve essere rappresentativo del materiale in esame e deve essere prelevato con una frequenza adeguata ad assicurare la rappresentatività dei parametri da rilevare, in funzione dell’obiettivo da perseguire. Le norme di riferimento sono CNR IRSA quaderno 64 (1985) “Metodi analitici per i fanghi” Appendice I; Norma UNI 10802 (Rifiuti – Rifiuti liquidi, granulari, pastosi e fanghi – Campionamento e preparazione ed analisi degli eluati); Norma UNI 5667-13/2000 (Guida al campionamento di fanghi provenienti da attività di trattamento delle acque e delle acque di scarico).
[10] In tal senso F. GIAMPIETRO, La nuova disciplina dei rifiuti, IPSOA Edizioni, 2011, capitolo 10: “Classificazione dei rifiuti pericolosi dopo il D. L.vo n. 205/2010”.
[11] Così: L. MUSMECI “Classificazione dei rifiuti pericolosi in base alla Direttiva 2008/98/Ce”, Rapporto ISTISAN 10/42 Trattasi del rapporto che contiene gli atti del Convegno nazionale tenuto da Costamagna F.M., Marcello I., Di Prospero P. e L. MUSMECI “Applicazione del Regolamento CE 1272/2008: classificazione, etichettatura e imballaggio delle sostanze e delle miscele e ricadute nella legislazione correlata. Istituto Superiore di Sanità” organizzato dal Centro Nazionale Sostanze Chimiche dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), svoltosi il 13 maggio 2010 a Roma. Il rapporto è accessibile online dal sito di questo Istituto: www.iss.it.
[12] Così anche C. GRAMELLINI, L. BILLI e A. BOTTI, Arpa Emilia-Romagna, “L’estrema variabilità dei campioni e delle matrici oggetto di verifica, una normativa in molti casi incoerente e incompleta rendono spesso l’analisi dei rifiuti particolarmente complessa. Le criticità da affrontare per l’ente di controllo possono essere risolte avendo a disposizione informazioni esaustive e campioni mirati” in Ecoscienza 5-6/2011. Secondo gli Autori per una corretta valutazione analitica devono essere disponibili tutte le possibili informazioni utili a descrivere le condizioni e le caratteristiche del rifiuto da cui ha avuto origine il campione (luogo, tipo di stoccaggio, contenitore, quantità, stato fisico, caratteristiche organolettiche, distribuzione-rifiuto monolitico o granulare, granulometria, grado di omogeneità) e le modalità di campionamento. Tutto ciò concorre alla corretta predisposizione/ preparazione del campione per l’analisi (vagliatura, macinatura, riduzione, eluizione ecc.) e a garantire che i risultati ottenuti sul campione siano rappresentativi dell’intera partita di rifiuto. E’ inoltre altrettanto importante avere tutte le informazioni disponibili sull’origine del rifiuto, per indirizzare la scelta dei parametri da ricercare, individuando, quando possibile, protocolli analitici minimi, ma significativi.
[13] Mauro SANNA, “I codici a specchio”, da “Industrieambiente.it”, 2013